ven
03
ago
2018
La famiglia è un sistema complesso, all’interno del quale si verificano torti, trascuratezze, fraintendimenti, gelosie e forti rivalità. Tutte queste ferite, provocano un’emozione che nel tempo si va a consolidare: il rancore.
Nello specifico, il rancore è un’emozione non risolta, dovuta ad una situazione che ci ha fatto stare male e che non è stata affrontata, ma che è stata messa momentaneamente in disparte; questa emozione si diffonde nella mente rievocando il ricordo negativo, nonché la messa in scena di quanto accaduto e purtroppo, il tutto viene colorito da fantasie punitive e di vendetta. Il soggetto che in una data situazione si sente vittima, utilizza il rancore come strumento per protrarre il ricordo negativo dell’offesa subita, in maniera continuativa e amplificata.
Da qui nascono risentimenti, ritorsioni e vere e proprie diatribe familiari, da cui spesso si verificano allontanamenti e rotture definitive dei rapporti.
La terapia Sistemico Relazionale, basandosi sul presupposto che la famiglia non è un’entità statica, ma bensì in continuo mutamento, acquisisce i dati che la famiglia stessa espone e li riorganizza. Così facendo, la realtà conflittuale presentata, assume un nuovo significato e configurazione. I protagonisti della situazione di disagio, cominciano a percepire se stessi e gli altri in modo gradualmente nuovo e così, si possono aprire nuove possibilità e nuovi equilibri.
Accettando ed elaborando gli episodi negativi, si possono impiegare al meglio le proprie energie, focalizzandole nella ricerca del meglio nel presente. Così facendo si smantella la rabbia sottostante e si inizia a superare il rancore, e questo è prima di tutto un dono che si fa a se stessi. Non si tratta di dimenticare il passato, ma di dissociarlo da una colorazione emotiva, per lo più dolorosa, che lo rende tanto difficile da tollerare e che, peggio ancora, viene costantemente rievocato nella quotidianità.
mar
24
lug
2018
Il PAZIENTE DESIGNATO.
Chi è il paziente designato? Generalmente è il membro della famiglia che
attraverso disturbi di natura comportamentale, sociale o, a volte anche somatica, richiama l'attenzione sui problemi della famiglia. Il paziente designato può essere definito la " vittima" delle
tensioni familiari ,ossia, colui che si fa carico dei disagi della sua intera famiglia per conservarne l'equilibrio! In questi casi, la terapia sistemico relazionale considera come paziente il
sistema familiare stesso e la terapia si focalizza su una totale ristrutturazione del modello iniziale di riferimento riorganizzando un nuovo equilibrio!
sab
12
mag
2018
Vi siete mai fermati un attimo a fare una riflessione su quale stile comunicativo privilegiate?
Quando c'è una ricorrenza, che tipo di auguri inviate ad amici, parenti o familiari?
Cercate le parole giuste per la circostanza o cercate in rete immagini, video o quant'altro ed inviate?
Sicuramente, la seconda ipotesi è quella più utilizzata.
E' la tua festa e ti arriva il primo messaggio di auguri con una immagine animata… Simpatica pensi…. e subito dopo ne arriva un'altra dello stesso tenore che ti emoziona meno della prima; poi ne arrivano altre ed altre ancora, lasciandoti praticamente indifferente…
Questo meccanismo risulta pratico, efficace ma nascondono anche qualcosa di antisociale e robotico. Per quanti emoticon o gif possiamo usare, è molto più facile stimolare un'emozione con una chiamata che con un messaggio.
L'esclusività del rapporto a due viene meno, come il calore che contraddistingue la natura umana; al tempo di internet 2.0, non si dedica più il giusto tempo a chi ci circonda e così facendo raffreddiamo il nostro contesto sociale, rendendo tutto profondamente distante, cinico e ipocrita.
Inviare un gif con scritto "Buongiorno", necessariamente non significa di averlo augurato. In questo caso si verifica una comunicazione, che non comunica emozionalmente nulla.
Pertanto, per quanto possibile, cerchiamo di comunicare verbalmente, evitando ogni volta che possiamo i messaggi di testo.
Cerchiamo di recuperare quella piccola dose di umanità che ci permetta di riapprezzare il nostro semplice esistere.
mar
15
dic
2015
La rabbia normalmente è considerata come un’emozione negativa, ma non esistono emozioni positive o negative; semplicemente le emozioni esistono ed hanno una funzione nella nostra vita.
La rabbia è una risposta emotiva ad uno stimolo considerato dall’individuo come provocatorio, si attiva quando egli valuta un evento come un ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo, oppure quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto o un danno (Novaco 1975 - D’Urso, Trentin 2001).
I nostri figli provano più rabbia in due momenti della loro crescita: verso i due anni, ovvero quando escono dalla primissima infanzia e durante l'adolescenza. Sono le epoche in cui il bambino deve separarsi dai genitori e crearsi un sé indipendente, una propria personalità.
Contrariamente al mondo animale, ove quando la prole è in grado di sopravvivere da sola viene allontanata dal gruppo, nella nostra società le figure genitoriali non riescono a "liberare" i figli e devono essere pertanto loro a provocare l'allontanamento. Al bambino necessita la rabbia per staccarsi dai genitori e permette di crearsi un senso di identità proprio. Lo stesso meccanismo accade durante l’adolescenza, quando i ragazzi devono impegnarsi per diventare indipendenti dai genitori sotto tutti i punti di vista.
Gli educatori normalmente cercano ad identificare e frenare ogni manifestazione di rabbia. Nella nostra cultura esistono differenze educative circa il manifestarsi delle emozioni: al maschio viene insegnato ad inibire la tristezza e la paura e ad esternare la rabbia; alle femmine il contrario. Le conseguenze psicologiche sono chiare: una femmina proverà più senso di colpa ad esternare la rabbia rispetto ad un maschio.
Nella visione collettiva sta predominando il messaggio che le emozioni negative siano patologiche, per cui la tristezza diventa depressione, la rabbia disturbo oppositivo-provocatorio e così via. Ma la rabbia di per sé, non è mai giusta o sbagliata: la risposta non è negare o sopprimere la rabbia, ma imparare a tollerarla e gestirla senza attuare modalità disfunzionali autodistruttive (autolesionismo, assumere stupefacenti etc).
Tal volta non serve sopprimere l’aggressività, ma bisogna rielaborala. Ovvero passare dall'esternare tale manifestazione, al rappresentarsi internamente il proprio stato emotivo adottando adeguate strategie per la valutazione degli eventi stressanti, scegliendo il momento e la modalità più adeguata per manifestalo.
Cosa devono imparare i bambini: vivere l’emozione, identificarla e comunicarla alla persona che l’ha scatenata e questo, spesso non viene fatto. Nei corsi di
affettività che si tengono nelle scuole, spesso gli psicologi si accorgono che i bambini non sono in grado di riconoscere le espressioni delle diverse emozioni, di dare loro un nome, ipotizzare
il motivo che possa averle scatenate o la manifestazione comportamentale che seguirà.
Insegnare ai ragazzi a gestire le emozioni significa, per prima cosa, dare il buon esempio. Quindi il primo lavoro da fare è su noi stessi. Gli adulti, per primi, dovrebbero imparare ad accettare le emozioni che provano, anche quelle spiacevoli, senza cercare di combatterle. In primo luogo, perché è una battaglia persa, le emozioni soppresse torneranno. In secondo luogo, perché combattere le emozioni porta ad uno spreco di energie che potrebbero essere utilizzate meglio nel cercare di comportarsi nel modo che riteniamo più corretto, senza lasciare che le emozioni decidano per noi. Infine, negare a noi stessi di provare alcune emozioni significa privarci di una gamma importante delle esperienze umane.